Sembrerà strano, ma nelle ultime 48 ore è capitato di imbattermi in due storie, diverse tra loro, ma che hanno messo in risalto quella che va considerata la sofferenza per antonomasia, quella che viene subìta a lungo fino ad allontanarsi da essa scegliendo la morte. E si, perché il suicidio non deve essere considerato un movimento di avvicinamento alla morte, ma il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile.
Questo dolore è talvolta definito “intollerabile” o anche “angoscia mentale“, una condizione di sofferenza che va oltre il semplice malessere o la tristezza momentanea. Uno stato d’animo caratterizzato da disperazione, isolamento e senso di impotenza, al punto che la persona non vede altra soluzione se non la fine della propria vita. Può avere molte facce, questo dolore, e può variare da persona a persona, ma ci sono alcune caratteristiche comuni. Ad esempio, la disperazione. Chi vive questa sofferenza spesso si sente intrappolato in una situazione insopportabile da cui non riesce a trovare una via d’uscita. La disperazione, infatti, porta a vedere il futuro come oscuro o inesistente, privando la persona della speranza che le cose possano migliorare.
Anche la sensazione di isolamento gioca un ruolo di primaria importanza. Molte persone che soffrono di dolore psicologico intenso si sentono isolate, anche in mezzo agli altri. Possono credere che nessuno capisca il loro stato d’animo, o temere di essere un peso per amici e familiari. Così come la vergogna ed il senso di colpa. Vergona per le proprie difficoltà o senso di colpa per non riuscire a migliorare la propria situazione, o addirittura per il dolore che ritiene di causare agli altri. Questi sentimenti possono portare la persona a nascondere il proprio malessere, aumentando così l’isolamento e la sofferenza.
In tali condizioni, la mente si concentra ossessivamente su problemi e sensazioni di fallimento, rafforzando così il senso di impotenza e di disperazione. Da qui, il suicidio diventa un modo per porre fine alla sofferenza. Non è necessariamente un desiderio di morire o un avvicinamento alla morte, ma piuttosto un desiderio di far cessare il dolore. Un dolore che spesso passa inosservato, dal quale spesso chi dovrebbe essere vicino si allontana perché lo teme, perchè il dolore fa male e cerca di tenerlo lontano. E invece no! Il dolore andrebbe fatto amico. Dovremmo socializzare con il dolore, accettarlo come una parte della nostra esperienza, senza rifiutarlo o negarlo.
Mi rendo conto che un grande ostacolo nel processo di gestione del dolore è spesso il giudizio che infliggiamo a noi stessi. In molti casi, ci si sente deboli o inadeguati per il semplice fatto di soffrire, come se non fosse “normale” o “accettabile”. Ridurre il senso di colpa e il giudizio verso di sé diventa allora essenziale per socializzare con il dolore. Questo implica imparare a essere più compassionevoli e comprensivi verso se stessi, accettando il fatto che il dolore non è una colpa, ma una condizione umana. Socializzare con il dolore significa integrarlo nella propria storia di vita!
Invece di essere qualcosa da cui fuggire, il dolore può diventare parte di noi e, nel tempo, può persino diventare una fonte di forza. Questo non significa minimizzare la sofferenza, ma riconoscerla come una fase del proprio percorso, come qualcosa che può insegnarci ad avere una prospettiva più profonda su noi stessi e sul mondo.