Gli ultimi casi di femminicidio in Italia, così come riportati dalle cronache, presentano purtroppo una serie di elementi comuni, che riflettono dinamiche profonde e strutturali, radicate sia a livello sociale sia psicologico.
La maggior parte dei femminicidi avviene in un contesto di relazione stretta tra vittima e carnefice, come partner o ex-partner, mariti o fidanzati. Ciò significa che il rischio di violenza estrema è spesso più elevato nelle relazioni sentimentali o familiari. Molti femminicidi si verificano in seguito a una separazione o durante una crisi nella relazione, come il rifiuto da parte della vittima di continuare o riprendere la relazione. Il femminicidio diventa quindi un’espressione drammatica di controllo e possesso, dove l’aggressore non accetta di perdere il legame e tenta di ristabilire il proprio potere con la violenza estrema.
In diversi casi, è emerso che l’aggressore aveva già manifestato comportamenti violenti verso la vittima o altre persone. Spesso, i femminicidi sono l’esito tragico di una lunga storia di abusi e vessazioni che possono includere violenze fisiche, psicologiche, minacce e stalking. Talvolta, le vittime avevano già cercato di denunciare o di ottenere protezione, ma questo non è sempre stato sufficiente per evitare l’escalation della violenza. Le denunce spesso non portano a misure efficaci di protezione, a causa di limiti istituzionali e sociali.
Un altro elemento comune è la visione della vittima come “proprietà” dell’aggressore. In molti casi, gli aggressori tendono a percepire la vittima come qualcosa da possedere e controllare. Il femminicidio è quindi una reazione a una “perdita” percepita, in cui l’aggressore ritiene di avere il diritto di decidere del destino della donna. La mentalità che porta al femminicidio si basa su una concezione della donna come subordinata o dipendente. Molti femminicidi sono motivati proprio dalla convinzione che la donna non abbia diritto alla propria autonomia e libertà decisionale, specie nel caso di una rottura della relazione. Va anche detto che molto spesso il femminicida mostra una marcata mancanza di empatia e un alto grado di narcisismo. È centrato su di sé e sul proprio bisogno di controllo, senza preoccuparsi delle conseguenze delle proprie azioni per la vittima. Secondo Kernberg il narcisismo non è semplicemente una forma estrema di autostima, ma una struttura complessa e profonda che influenza negativamente le relazioni e la percezione di sé.
Egli distingue il narcisismo sano, ovvero una forma di autostima positiva che favorisce il benessere individuale e le relazioni sociali, permettendo alla persona di valorizzare se stessa senza disprezzare o danneggiare gli altri, da quello che definisce narcisismo patologico, caratterizzato da un’eccessiva idealizzazione di sé e da un profondo senso di superiorità, accompagnato però da fragilità e vulnerabilità nelle relazioni e nell’autostima. Costoro utilizzerebbero difese primitive per proteggere un sé fragile. Tra queste difese rientrano l’idealizzazione e la svalutazione: il narcisista cioè tende a idealizzare se stesso (o certi altri, in funzione di un riflesso della propria superiorità) e a svalutare le persone che non soddisfano le proprie aspettative o che lo “minacciano” in qualche modo. Inoltre, egli è sostenuto dal meccanismo di scissione, ovvero la tendenza a vedere sé e gli altri come completamente buoni o completamente cattivi.
Spesso, gli aggressori sono condizionati da stereotipi e norme culturali che incoraggiano una visione tossica della mascolinità, in cui l’uomo è spinto a dimostrare la propria “forza” e “superiorità” attraverso il controllo delle donne. In alcuni casi, presentano storie di traumi familiari, abusi o violenze precedenti, che influenzano il loro comportamento e atteggiamento verso le relazioni. La mancanza di una cultura del supporto psicologico e la scarsa sensibilizzazione sulla salute mentale fanno sì che queste ferite rimangano irrisolte. L’ambiente sociale, in ultimo, può spesso essere complice della violenza, che a volte viene giustificata o minimizzata. Una mentalità che normalizza atteggiamenti possessivi e aggressivi nei confronti delle donne rende più probabile che gli aggressori non si fermino prima di arrivare all’estremo.