La schizofrenia è un disturbo mentale cronico e complesso che colpisce circa l’1% della popolazione mondiale.
Si caratterizza per una serie di sintomi, tra cui deliri, allucinazioni, disorganizzazione del pensiero, e sintomi negativi come apatia, riduzione dell’espressione emotiva e difficoltà nelle interazioni sociali. La causa esatta della malattia non è ancora completamente compresa, ma si ritiene che una combinazione di fattori genetici, biochimici e ambientali possa contribuire alla sua insorgenza.
Studi condotti su gemelli e sulle famiglie hanno mostrato che la schizofrenia ha una componente genetica significativa. Persone con un parente di primo grado affetto da schizofrenia hanno un rischio maggiore di sviluppare la malattia. Tuttavia, non esiste un singolo gene responsabile della schizofrenia, ma piuttosto una serie di varianti genetiche che interagiscono tra loro e con l’ambiente. Spesso sembra essere stata associata a disfunzioni nel sistema dopaminergico, ma anche in altri sistemi neurochimici, come quello della glutammina e della serotonina. In tal senso le terapie farmacologiche, in particolare gli antipsicotici, mirano a ridurre l’attività della dopamina, che si pensa sia coinvolta nelle manifestazioni psicotiche del disturbo.
Alcuni studi di neuroimaging e autopsie cerebrali hanno suggerito che le persone con schizofrenia possono presentare anomalie strutturali nel cervello, come un aumento delle dimensioni dei ventricoli cerebrali e una riduzione della materia grigia in alcune aree, come la corteccia prefrontale. Secondo i succitati studi, tali cambiamenti potrebbero influenzare le funzioni cognitive e il comportamento.
In questo scenario, una recente ricerca italiana ha portato alla luce conoscenze che potrebbero dare un impulso innovativo proprio alla diagnosi precoce della schizofrenia, svelando possibili biomarcatori nel sangue. Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista internazionale Schizophrenia (Nature Group), è stato condotto presso il CEINGE Biotecnologie Avanzate Franco Salvatore di Napoli e coordinato da Alessandro Usiello, direttore del Laboratorio di Neuroscienze Traslazionali del CEINGE e professore ordinario di Biochimica Clinica dell’Università della Campania Lugi Vanvitelli, in collaborazione con i professori di Psichiatria Antonio Rampino e Alessandro Bertolino dell’Università di Bari “Aldo Moro”, con il dottor Matteo Vidali, direttore della Struttura Complessa di Patologia clinica dell’IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, e con Francesco Errico, professore di Biochimica dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Lo studio, durato oltre 5 anni e finanziato dai Ministeri della Ricerca e della Salute e con i fondi PNRR (progetto MNESYS), ha rivelato che i livelli sierici di due amminoacidi atipici D-aspartato e D-serina, potrebbero rappresentare biomarcatori utili per tracciare gli stadi precoci di psicosi, prima che i sintomi della schizofrenia diventino clinicamente manifesti, candidandosi a diventare potenziali indicatori di rischio della transizione da fasi prodromiche del disturbo all’esordio conclamato della malattia.